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A TIRANA, NEL 1991, SALVATO DA UNA “SORELLA” DI MADRE TERESA di Renato BRUCOLI

Devo molto a Madre Teresa di Calcutta e alle sue “sorelle”. Mi piace dichiararlo pubblicamente nel giorno della canonizzazione.





















Nel dicembre 1991 ero a Tirana, come responsabile del settore emergenze della Caritas diocesana di Molfetta. Dopo aver favorito l’accoglienza dei fratelli e delle sorelle albanesi in diocesi, don Tonino Bello ha voluto che mi recassi in Albania per avviare alcune micro realizzazioni sostenute dal popolo di Dio della Chiesa molfettese. Don Tonino era gravemente ammalato e aveva subìto da poco un intervento chirurgico: mi ha così chiesto di andare per rendere la mia opera, assicurandomi che ci saremmo tenuti in costante contatto telefonico, come è stato.La libertà di varcare le frontiere fra Italia e Albania era stata riattivata da poche settimane. Ho così raggiunto Durazzo e poi Tirana, stabilendomi provvisoriamente nell’abitazione dei signori Kubati, genitori di due giovani accolti sul territorio italiano dalla famiglia Rutigliano-Fracchiolla di Terlizzi. Ervin e Roni avevano chiesto ai genitori di prodigarsi per la mia persona; Gevi e Bibi mi ospitavano volentieri nella loro abitazione a piano terra, qualche decina di metri quadri con un rudimentale bagno esterno. Cercavano di preservarmi come potevano dai rigori invernali; di alimentarmi al meglio, nonostante l’oggettiva penuria di cibo; di accompagnarmi dappertutto con discrezione. Si dichiaravano musulmani, ma io non notavo sostanziali differenze di credo o di comportamento tra di noi. Manifestavano grande umanità e cortesia. A me sembrava perfino eccessiva nel difficile contesto sociale in cui eravamo immersi. 
Qualche giorno prima di Natale, è giunto a Tirana il nuovo Nunzio apostolico, nominato dalla Santa Sede dopo quarant’anni di assenza a causa del dichiarato ateismo di Stato proclamato da Enver Hoxha, con conseguenti persecuzioni. Mi sono fatto accompagnare all’aeroporto di Rinas (Tirana) per accoglierlo insieme a poche altre decine di credenti cattolici presenti in quel momento nella capitale albanese, fra cui alcune suore di Madre Teresa. Siamo stati tutti invitati, in serata, nella cattedrale della capitale, già profanata e adibita a usi diversi dal culto, per una celebrazione di ringraziamento per il ripristino della libertà religiosa nel "Paese delle aquile". Gli amici musulmani mi facevano presente che mi avrebbero accompagnato fin sulla soglia del luogo sacro, ma che non sarebbero entrati: piuttosto avrebbero atteso la fine della celebrazione al di fuori fuori. Così ho deciso di andarci da solo, sia perché conoscevo la strada, sia perché mi dispiaceva che due persone più grandi di me sarebbero state costrette a subire il freddo tagliente dell’inverno balcanico. In chiesa, al mio stesso banco, praticamente di fianco, si è sistemata una signora albanese di una certa età, rugosa nel volto come poche altre, ma assolutamente gioiosa nello spirito, evidentemente commossa e costantemente a mani giunte durante tutta la celebrazione. Aveva sperimentato a lungo l’impossibilità di manifestare la fede, dunque viveva un momento di particolare intensità emotiva al ripristino della libertà religiosa. Così almeno ho inteso a pelle. Per età poteva essermi madre. Un caldo abbraccio materno mi ha reso allo scambio della pace. Al termine del rito ho imboccato la giusta traiettoria per rientrare a casa Kubati. La città era buia, come ogni sera, ma nel cielo c’era la luna piena che illuminava la via. Conoscevo a memoria il percorso. Tirana ha arterie lineari nel centro città. Ho imboccato la scorciatoia che mi avrebbe portato in rruga Avni Rustemi, dove al mattino veniva allestito un piccolo mercato senza bancarelle, cipolle e candele come unica merce disposta a terra, poi di corsa a casa Kubati. Invece mi sono ritrovato circondato da una gang giovanile, un gruppo di circa dieci ragazzi fra i 14 e i 18 anni, molto più esili di me ma scattanti e determinati, evidentemente allo sbando, forse disperati e per questo violenti. Mi chiedevano del denaro in lingua italiana, riconoscendo un volto diverso dal loro. Ho risposto di non avere denaro con me, pur custodendone nella tasca dei pantaloni, sotto il cappotto che indossavo. Non mi hanno creduto, ovviamente, e hanno cominciato a mettermi le mani addosso, a sballottolarmi l’uno contro l’altro, per poi colpirmi sul dorso e nel ventre. Mi ritrovavo al centro di un circolo senza via di uscita, votato al peggio. Ho così realizzato che mi avrebbero denudato, picchiato, derubato e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. Ero confuso, impaurito, incapace di reagire. Ho pensato a mia moglie, e al figlio che portava con sé in grembo, ormai al quinto mese di gravidanza. Forse non l'avrei mai conosciuto... avrei dovuto accontentarmi di aver visto la sagoma grazie all’ecografia praticata dal ginecologo. È stato allora che ho invocato l’aiuto di Madre Teresa, per il semplice fatto di saperla albanese e perché, proprio nel pomeriggio, all’aeroporto di Rinas, avevo dialogato con alcune suore della stessa famiglia religiosa. Mi avevano raccontato con semplicità della loro scelta di povertà, e di dedizione al popolo albanese, disposte a servirlo nei bambini disabili del Nord, i più poveri fra i poveri, per giunta oggetto di stigma sociale. Ecco che dal buio, quasi d'improvviso, è sbucata la Signora al mio fianco in chiesa. Forse perché più anziana, percorrendo la stessa strada, sopraggiungeva in un secondo momento, giacché io, prima di essere bloccato, avevo allungato il passo. Ha gridato ai giovani che mi tenevano intrappolato. Non capivo cosa dicesse perché parlava in albanese. Comunque mi ha liberato dalla loro morsa. È riuscita a ottenere che si allontanassero... Io avevo il fiato grosso. Ansimavo. Ha preteso che mi calmassi. Che riprendessimo a percorrere insieme, passo dopo passo, il tratto di strada che mi separava dal domicilio ospitante dei Kubati. Arrivato nei pressi, l’ho ringraziata, aggiungendo che, poco prima, disperavo veramente di farla franca. Le ho anche chiesto: “Signora, cosa ha gridato a quei giovani?”. Mi ha risposto: “Che li conoscevo; che sapevo chi fossero i loro genitori; che avrei riferito loro ogni cosa; che era ingiusto insidiassero uno straniero venuto ad aiutare il popolo albanese”. L’ho ringraziata ancora. Le ho baciato le mani. E mi è sgorgata un’ultima domanda, quasi di congedo: “Signora, perché l’ha fatto?”. “Perché sono sorella di Madre Teresa”, mi ha risposto. Quindi si è eclissata. Nel buio. “Signora – l’ho richiamata – vorrei farle conoscere coloro che mi ospitano...”. Ma non c’era più. Eppure nella mia vita continua ad esserci, ancora oggi. Tante volte mi sono chiesto chi fosse quella Signora rugosa in abito scuro, che mi ha salvato la vita appena oltre rruga Rustemi, “perché sorella di Madre Teresa”. Sorella perché sorella? Sorella in quanto albanese? Sorella perché donna di fede e di principi religiosi come Madre Teresa? Sorella perché capace di prossimità e compassione come lei? Sorella nel contagio della bontà che si schiera in difesa della vita anziché ridursi nell’indifferenza? Sta di fatto che quella vicinanza, nel nome di Madre Teresa, mi ha salvaguardato. Rientrato in Italia, non ho raccontato l’accaduto a nessuno, neppure a mia moglie che ha appreso i fatti molti anni dopo: temevo che, venendone a conoscenza nell’immediato, non mi avrebbe più consentito di raggiungere l’Albania, tra le gente che amo e che presto incontrerò di nuovo. Non l’ho detto neppure a don Tonino Bello, perché allora troppo sofferente: mi sembrava di non avere il diritto di aggiungere, a sofferenza, altra sofferenza! Eppure lui mi ha lasciato di stucco quando, in ritardo con gli impegni, mi ha pregato di predisporgli la traccia di un testo per la rivista Credere, che avrebbe pubblicato a suo nome. Alla configurazione dello scritto da me concepito, prima di licenziarlo ha voluto aggiungere, di suo, un riferimento a Madre Teresa. Leggendomelo ad alta voce nella versione definitiva, ha sottolineato: “L’ho fatto anche per te!”. Mi ha preso un brivido: vuoi vedere che i santi, anche prima di essere dichiarati tali, sono capaci di comunicazioni celestiali “ante litteram”?
per Odysseo.



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